Cari amici rivolesi, ho avuto modo di conoscere anni fa la vostra comunità e mi onoro di essere legato da sincera amicizia con alcuni tra voi.
Con interesse e non poca apprensione ho seguito la vicenda della mozione in merito alla delicata questione educativa delle giovani generazioni presentata dalla maggioranza in consiglio comunale e dei seguenti comunicati di segno opposto arrivati a stretto giro dalla minoranza.
Anche elementi della società civile hanno manifestato ora contrarietà ora approvazione al contenuto di quella mozione.
Non a caso ho usato il termine “apprensione” perché pensare di relegare un tema cruciale al semplice “piantare bandierine” della politica dell’uno o dell’altro segno è quanto mai svilente e costituisce prova evidente di una non corretta comprensione della posta in gioco.
Un tema tanto delicato richiederebbe un approccio ragionato e approfondito, per quanto possibile scevro da presupposti ideologici e dalla logorante tendenza a strumentalizzare il dibattito in chiave politica e, a tal fine, mi limito a porre delle basi per una adeguata riflessione.
Il primo equivoco in cui si è caduti in questa vicenda è la non corretta comprensione del rapporto scuola-famiglia.
Chi scrive ben conosce le dinamiche della scuola, sia come genitore sia come insegnante nella scuola primaria e secondaria di primo grado. Per un verso, la scuola rischia di fungere da comodo parcheggio per i figli durante la settimana lavorativa. Per un altro, le famiglie desidererebbero - e giustamente - essere parte attiva e consapevole del percorso educativo.
Ciò è, in effetti, il cuore del cosiddetto patto educativo di corresponsabilità, la vitale e imprescindibile alleanza tra scuola e famiglia che ha però confini ben precisi.
Per sua natura questa alleanza non stravolge il ruolo di alcuno dei suoi contraenti e cioè non priva la famiglia di quel diritto/dovere all’educazione dei figli sancito dalla Costituzione e in specie dall’art.30 (così fortemente voluto da chi ben conosceva i rischi e i danni di un’educazione totalitaria) e nel contempo non carica soltanto sulle spalle della scuola il compito, bellissimo quanto gravoso, dell’educazione dei più giovani.
Alla famiglia è richiesto di fidarsi del fatto che la scuola saprà aiutare, custodire e far fiorire quella preziosità insita in ogni persona e che ha la sua prima ed insostituibile “palestra” nella quotidianità familiare.
Al tempo stesso alla scuola è richiesto di prendersi cura di quei giovani germogli, curarli, assecondarli nella crescita e farli sbocciare nella consapevolezza che ad essa sono soltanto affidati (e non è affatto poco!) con la promessa che ogni cosa sarà fatta nel rispetto di quelle radici che hanno nella famiglia il loro terreno.
A riprova di quanto detto sin qui lo stesso Ministero dell’Istruzione stabiliva con apposita nota la necessità di un consenso informato e preventivo per tutte quelle attività che non rientrano nel curricolo obbligatorio e che costituiscono un ampliamento dell’offerta formativa prevedendo l’astensione in caso di non accettazione da parte della famiglia e in cui rientrano ad esempio anche quei progetti eticamente molto delicati quali educazione affettiva e sessuale (nota MIUR 19534 del 20/11/2018).
Un secondo equivoco è quello di ridurre la persona umana ad un semplice agglomerato di “ingredienti” che possono integrarsi armonicamente o, al contrario, confliggere ferocemente tra loro.
Specie nel rapporto tra natura e ambiente, biologia e condizionamenti sociali, si tende a introdurre un’antitesi schizofrenica. Per parafrasare il celebre Giovannino Guareschi de Il diario clandestino, si potrebbe affermare che l’essere umano non è per nulla facile da capire e comandare, per cui o lo si considera nella sua complessità o si prendono solo sonore cantonate.
Ad esempio, il ruolo associato alla figura maschile è indiscutibilmente cambiato dal dopoguerra ad oggi e molte cose che prima erano considerate prerogativa femminile ora lo sono assai meno: chi scrive rivendica il fatto di essere l’addetto di casa alla lavastoviglie e di aver scoperto un discreto talento nel cucinare anche piatti complicati. Ma possiamo con questo negare che donna e uomo abbiano un proprio e peculiare modo di guardare al mondo? Pensiamo davvero di poter semplicemente liquidare il tratto biologico come mero accidente rispetto al dato socio-culturale?
Sono le stesse neuroscienze, al contrario, a dirci che il substrato cromosomico non determina soltanto le caratteristiche genitali, ma plasma invece in profondità ogni aspetto della nostra persona, tanto che si può parlare di un cervello femminile ed uno maschile (si legga ad esempio L.Brizendine, Il cervello delle donne) e che la materia grigia “unisex” semplicemente non esiste. Sin dalla gestazione si evidenziano differenze cerebrali che hanno a loro volta influssi cognitivi, comportamentali e ormonali e che cambiano il modo con cui uomo e donna vivono il mondo.
Allora la biologia esaurisce tutto? Assolutamente no, ma intenderla come fattore accessorio o, peggio, pensare di ignorarla, è una contromossa falsificante e dannosa. Quale insegnante non sa e quale genitore non vede che determinate peculiarità tipicamente maschili o femminili, sono agìte molto prima che ve ne sia piena consapevolezza da parte del bambino?
Non è la stessa cosa, ad esempio, insegnare in una classe a prevalenza femminile o maschile e servono attenzioni, modalità ed espedienti diversi per facilitare l’apprendimento e questo non perché gli uni siano meglio delle altre, ma perché il non tenerne conto si ritorce sul docente come un boomerang.
Distinguere, rispettare e valorizzare le differenze senza quindi banalizzarle, non significa affatto discriminare, ma lavorare piuttosto per una maggiore integrazione di ciascuno, senza pretendere invece di uniformare ideologicamente.
Un terzo ed ultimo equivoco è forse il ruolo che si attribuisce alla scienza.
Essa non può permettersi di piegarsi alle esigenze degli uni o degli altri, ma deve confrontarsi con la realtà e accettare anche che le premesse iniziali possano essere completamente stravolte.
Sulle tematiche qui trattate la scienza non ha ancora detto una parola definitiva e le nuove ricerche aprono di continuo parentesi ben lontane dall’essere chiuse.
Da un alto le scienze sperimentali continuano ad accumulare evidenze delle peculiarità maschili e femminili, ma sappiamo anche che in altre discipline i presupposti filosofici possono decisamente influenzare risultati e metodologia di ricerca.
Se decidessimo di restare su questo terreno ogni parte potrebbe probabilmente citare in eguale misura ricerche scientifiche a sostegno della propria tesi e non si arriverebbe da nessuna parte.
E proprio qui sta il punto: laddove sulla questione non vi è un consenso unanime è possibile invocare un principio di prudenza?
In mancanza di una definitività sulla questione delle differenze maschili-femminili è lecito chiedersi se non sia un errore cancellarle (o banalizzarle il che equivale a svuotarle di senso) con l’aggravante della pretesa di farlo attraverso libretti (Piccolo Uovo ad esempio) in cui si sceglie di agire laddove non vi è né consapevolezza né capacità critica da parte degli utenti.
E il consenso della famiglia? Sarà chiesto o meno? E qualora questa dicesse di non essere d’accordo?
In una paese dove in ogni ascensore c’è una targhetta che avverte che è fatto divieto ai minori di dodici anni di salire da soli, possiamo permetterci di agire con leggerezza e superficialità su ciò che concerne l’essenza dell’umano e con bambini ancora più piccoli?
Quale voce in capitolo possono e debbono avere le famiglie cui compete il primato educativo?
E le istituzioni educative che operano a vario titolo sul territorio? Sono state tutte coinvolte oppure si opera una selezione per non avere voci critiche o contrarie?
Qual è il bene ultimo che si vuole raggiungere?
Una lotta alla discriminazione può (anche con le migliori intenzioni) trasformarsi in una discriminazione al contrario per chi non si sente allineato?
Queste domande e molte altre sono quelle che la politica tutta (intesa come la più alta forma di carità) dovrebbe porsi prima di “ingabbiare” un tema così importante in logiche di partito e opposte fazioni.
Un’ultima nota di dispiacere. Ho letto che alcuni esponenti cattolici della politica rivolese appoggiano la diffusione e la lettura di libretti nelle scuole come quello sopra citato sposando la teoria della contrapposizione tra biologia e condizionamenti sociali. Stupisce perché pare inverosimile non si scorga il pericolo insito in certe teorie e non perché sia ritenuto tale da un ristretto gruppo di cattolici oltranzisti, ma dallo stesso Pontefice (molto meno mediatico quando dice certe cose):
<< ...Per esempio, io mi domando, se la cosiddetta teoria del gender non sia anche espressione di una frustrazione e di una rassegnazione, che mira a cancellare la differenza sessuale perché non sa più confrontarsi con essa. Sì, rischiamo di fare un passo indietro. La rimozione della differenza, infatti, è il problema, non la soluzione.>>
(Papa Francesco, udienza generale del 15/4/2015)
Con stima e amiciziaAndrea Musso
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